AMBIENTI


Ciò che abbiamo intorno contribuisce in misura molto rilevante a farci percepire il mondo e noi stessi in un modo anziché in un altro, a farci rielaborare di volta in volta il quadro della realtà in una (e proprio in quella) tra le tante direzioni che il nostro pensiero può prendere.

Quando avvertiamo come “accogliente” il luogo in cui ci troviamo, sentendo, per esempio, che la nostra presenza in quel luogo suscita in coloro che abbiamo intorno curiosità, attenzione e disposizione all’ascolto, capiamo subito che lì possiamo metterci in gioco; ci viene voglia di “aprire” il nostro mondo a quelli altrui, di scambiare, di confrontare, di comprendere, di cercare risposte alle nostre domande, sfruttando tutte le dinamiche di relazione in cui, se il contesto è questo, ci appare facile entrare. In un luogo così, quando avvertiamo contraddizioni, tensioni, incomprensioni, ci viene voglia di capire meglio, di spenderci per individuare soluzioni e per realizzarle insieme con gli altri. E’ un luogo in cui ci sentiamo vivi, in cui ci pare che il nostro esserci abbia un senso.

Quando invece avvertiamo un luogo come “ostile”, sentiamo prima di tutto il bisogno di difenderci: ciò che lì avviene ci minaccia, si oppone a noi, ci nega. Non ci sentiamo riconosciuti, dunque nemmeno ascoltati e rispettati. Abbiamo l’impressione che lì si faccia un gioco che ci esclude e ci sembra che la nostra singolarità non sia presa in considerazione. Allora ci viene voglia di “chiudere” e, se non possiamo sottrarci fisicamente a quel luogo, ci stiamo dentro come fantasmi: non ci mettiamo in gioco, evitiamo le azioni di scambio (che ci esporrebbero a rischi che non vogliamo correre), prendiamo atto che il nostro mondo è altrove, un altrove in cui pensiamo si trovi la nostra vita vera, ben diversa da quella finzione che lì qualcuno ci sta imponendo. Il pensiero di quell’altrove diventa la nostra migliore arma di difesa, quella che ci permette di essere lì soltanto con il corpo. Se non possiamo scappare, ci rassegniamo a subire le incomprensibili regole di quell’ambiente, assorti nel pensiero del nostro altrove, aspettando l’ora in cui saremo di nuovo liberi di vivere. Oppure contrapponiamo all’ostilità dell’ambiente la nostra ostilità: entriamo in guerra nel tentativo di scardinare e scomporre quel quadro rigido e formalizzato che ci esclude.

Possiamo riferire queste considerazioni al mondo della scuola e interrogarci.

Pensando a come ci ricordiamo il nostro stare a scuola, abbiamo la sensazione di essere stati più “accolti” o più “esclusi”? Ci è mai capitato di essere a scuola “solo con il corpo”, mentre il pensiero, estraniato, inseguiva il nostro desiderio di “altrove”? Abbiamo mai avvertito la scuola come un ambiente “ostile”?

E pensando alla scuola che frequentano i nostri figli (o i nostri allievi), ci sembra sia una scuola “accogliente” o una scuola “ostile”?

E infine, riteniamo che, allo scopo della formazione individuale e del successo nell’apprendimento, la qualità dell’ambiente educativo abbia un peso e una rilevanza? O pensiamo che le differenze tra un ambiente e l’altro siano ininfluenti? Oppure siamo convinti che la rigidità dell’ambiente, i formalismi, il rigore asettico nell’applicazione delle norme, siano fattori comunque positivi dal punto di vista educativo?

Rigoletto


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