I nostri pensieri ci rendono ciechi alla mancanza che cerca il volto di quell’Uomo sulla Croce


Una stratificazione compatta di pensieri media il nostro rapporto quotidiano con la realtà, con le cose della vita, e anche con noi stessi. Gran parte del nostro tempo, istante per istante, si connota per essere prevalentemente dentro un rapporto con i nostri pensieri. La vita è sostanzialmente “pensata”. La realtà è lì, ma distanziata, per effetto del monopolio esercitato sulla nostra attenzione da ciò che avviene nella nostra testa.

Pensiamo i nostri pensieri. Siamo così immanenti ai nostri pensieri che solo urti eclatanti ci fanno aprire gli occhi alla presenza della realtà. Un’astrazione crescente cattura il pensiero nel dominio dell’immaginazione e il mondo immaginario finisce per costituire il solo reale per noi. Sperimentiamo emozioni come contraccolpi di ciò che accade là fuori, perché non possiamo evitare che quello che siamo sia completamente disarcionato dalla nostra militanza permanente nel circuito dell’astrazione.

La realtà è ridotta a un “pretesto”, a uno spunto iniziale che funziona da attivazione della forza avvolgente del pensiero.

Accade lo stesso con la Pasqua. Cioè, con il fatto più decisivo per la storia di tutti noi: davvero c’è stato un Uomo che non solo ha vinto la morte ma porta con Sé la possibilità di estendere questo privilegio a tutti coloro che Gli credono? Sembrerebbe una posta in palio piuttosto interessante. La cosa “più” interessante di tutte, a dire il vero, quantomeno se i pensieri si lasciassero fessurare da una domanda di verifica, se la proposta potesse essere considerata come meritevole di essere verificata.

Certo, occorrerebbe fare i conti con la propria condizione, di uomini appunto.

Ma cos’è un uomo? In cosa si è trasformato l’uomo per effetto dell’esilio dalla realtà che la sua immaginazione promuove con determinazione assoluta? Non si tratta di trovare una definizione apodittica, evidentemente. Possiamo però vedere che la traiettoria di allontanamento dalla nostra carnalità, in fondo è una fuga dalla nostra mancanza. Nessuno è più in grado di guardare a sé perché non sopporta la sua umanità, contingenza, limitatezza, impotenza. È insopportabile il non poter farsi da sé così come la rabbia per essere proprio così, affidati a sé nella nuda fatticità singolare in cui ciascuno si trova. Rabbia perché chi mi ha fatto, mi ha fatto diverso da ciò che la mia immaginazione avrebbe voluto.

Ogni forma di esilio immaginario ha nel suo fondo questa indisponibilità rancorosa e risentita per non essere ciò che si vorrebbe. Ognuno ambirebbe a un compimento, a una qualche forma di felicità, legata alla propria fantasia.

Un Uomo particolare ci guarda oggi dalla Croce: dice ad ognuno che non ci sono errori e che Lui è in quella strana condizione proprio per sigillare definitivamente che non c’è una fregatura. Lui non si è tirato indietro, anzi ha voluto poterlo fare come Dio, da vero uomo.

Occorrerebbe lasciare cadere i nostri pensieri, anche quelli più rigorosamente cattolici, teologici, impeccabili, per guardare in faccia quell’Uomo e bucare l’anaffettività che si è impadronita di noi con la scusa dei nostri pensieri.

La Pasqua è tale se avviene in noi la resurrezione dell’amore all’Uomo che i nostri pensieri vorrebbero infine distanziare, per effetto di una preferenza idolatrica, che è una volontà sorda e ribelle di avere l’ultima parola. Senza abitare drammaticamente la sproporzione della nostra mancanza, non ci può essere domanda di salvezza. Così Cristo muore inutilmente sulla Croce, dissolto dai nostri pensieri, alteri e spregiudicati.

The Squirrel


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