Il digiuno e la Grazia: note sul 41-bis e la Legge


Campeggia in questo tempo nel dibattito pubblico la vicenda dell’anarchico Cospito che, nel carcere di Sassari, sta protraendo il suo sciopero della fame spingendolo in un territorio di pericolosità per la sua stessa vita. Giustizialisti e garantisti si affrontano in modalità barricadiera, mettendo in scena una violenza dialettica che tradisce – da entrambe le parti – la mancanza di una pacificazione ultima sulla propria posizione.

Chi scrive non conosce le vicende processuali né le motivazioni della sentenza che ha portato Cospito al regime carcerario del 41-bis. Vogliamo pensare che i Giudici abbiano comminato una pena tanto severa in ragione di un’applicazione corretta dei Codici.

Un uomo digiuna, quindi. Fino ad esporsi alla possibilità della sua stessa morte. Afferma sé fino ad annientarsi. A chi sta parlando? A chi si rivolge il suo grido? Non sappiamo cosa alberghi nel suo cuore, non conosciamo il suo segreto. Però questo ci pone di fronte non tanto all’imputabilità della sua colpa, del suo crimine. Ma al senso della giustizia. Cos’è la giustizia, in fondo? Se ci attenessimo alla dottrina dovremmo costatare che il carcere, ossia la limitazione della libertà personale, ha – nel nostro Ordinamento – una funzione rieducativa. Ma a che cosa vuole educare il dispositivo detentivo? Un carcerato deve saldare i conti con la giustizia, si dice. E se un uomo – è il caso anche di coloro che si sono macchiati dei crimini più atroci, come sciogliere un bambino nell’acido – è inchiodato alla solitudine del suo (eventuale) pentimento, come potrà farlo moltiplicando i giorni della sua introspezione? Cosa può trovare al fondo di se stesso oltre all’orrore per i suoi stessi atti? E la rieducazione dove sta? Rieducare a cosa poi?

Qui non si vuole certo smantellare il sistema carcerario. Ci mancherebbe. È dell’uomo che è sopravvissuto al crimine il punto sul quale ci vogliamo interrogare. Che, detto altrimenti, significa porre il tema dell’utilità della sua vita. Se il tempo della carcerazione, spesso a tempo indeterminato, come nell’ergastolo, è semplicemente il contrappasso del crimine compiuto, potrà esserci “giusta” pena, ma che ne è della possibilità di accedere a un brandello di riumanizzazione? Sappiamo di persone che – grazie a nuovi incontri, seppur entro il perimetro delle mura carcerarie – hanno potuto riprendere in mano la propria vita, guardarsi allo specchio non già guariti dalla colpa, ma avendo intercettato un brandello di giustizia. Sì, perché la giustizia non è introdotta nel mondo per il tramite di una norma, ma come perdono. Il perdono non cancella il crimine, ma educa l’autore del crimine a una misura che nemmeno crede possibile. Quando la nomenclatura del Ministero di Giustizia ne includeva la Grazia (Ministero di Grazia e Giustizia si chiamava) questo non cancellava la pena, ma introduceva quantomeno un’apertura al fatto che gli uomini non sono in grado da soli, con il diritto positivo, a fare e a farsi giustizia. Le esperienze incredibili della giustizia riparativa, dove vittima e carnefice cominciano a dialogare, sono testimonianza della possibilità di un sollievo extraumano eppur umanissimo che, pur non azzerando l’atto criminoso, genera uomini cambiati.

Per questo, come ricorda spesso lo psicoanalista Massimo Recalcati, la sola Legge giusta è quella che sa autosospendersi. E qual è il punto di autosospensione? Quello in cui l’uomo arretra dalla tentazione di credere di essere capace di giustizia, ma lascia che una misura di cui non è capace faccia il suo lavoro. La pietà tutta umana del perdono non vuole eliminare le sbarre della cella, ma rimanere sospesa all’evidenza che un giudizio finale non compete all’uomo, ma alla sua apertura alla Grazia. Quale che ne sia la provenienza.

The Squirrel


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