Al Decreto Caivano risponde la domanda di “25”


Apriamo le sbarre della “grande gabbia

È così difficile amare la libertà dell’altro? È così difficile amare la libertà di chi sbaglia..?
Specialmente quando ha la faccia e le fattezze di ragazzi “disgraziati” e delinquenti..?

Forse a “capire le ragioni”, assimilarne contesto sociale e vicenda umana («poveretti…») ci si arriva ancora, ma amare… Ché la giustizia poi dove la mettiamo?!?

Signor Ministro, signori del Governo, davvero la risposta migliore che riuscite a dare – all’incattivirsi dei ragazzi, alla diffusione violenta e brutale della criminalità minorile – è diventare più cattivi dei cattivi? Stando ad aspettare che i ragazzi delinquano per bastonarli e sbatterli in cella?

Forse c’è di più.

Forse si può guardare meglio, c’è dell’altro.

C’è un grido da ascoltare, da intercettare, che chiede si giustizia, sapendo da subito di non essere in grado di produrla. Urla il bisogno d’essere “giusti” perché amati, di andare bene così come si è senza dover produrre particolari performance per farsi accettare nel mondo dei “grandi”. È quella giustizia che ha a che fare con la domanda di significato.

«Che senso aveva vivere per non essere niente? Che senso ha contare i giorni, attraversare le stagioni, se non si ha nulla da ricordare, nulla da prendere? Erano tutti perduti. Andavano a vuoto».

È Bernardo Zannoni (28 anni, il più giovane vincitore del Premio Campiello con il suo esordio “I miei stupidi intenti) a dare voce a questo grido nel suo “25”, tanti sono gli anni del protagonista, Gerolamo. Che vive in una “provincia” dove ci ritroviamo tutti, dove vediamo tutti le «vite piccole, fatte di cose piccole» che sfilano ogni giorno, riempiendo il calendario di vuoti a perdere.

Guardi bene, signor Ministro, e forse vedrà la Grande Gabbia che racconta Zannoni, nella quale tanti, troppi ragazzi si sentono imprigionati senza rimedio. Una Gabbia tremendamente più forte, più dura, delle sbarre del Beccaria e dei carceri minorili italiani, che pare siate tanto ansiosi di riempire ancor di più. È una Gabbia stretta dal sentirsi «uomini a metà», ai quali continua a mancare lo sguardo di uomini interi. Uomini, cioè, credibili, perché fragili e limitati ma non definiti dai propri errori. Al contrario, che nel proprio limite pescano la libertà del chiedere aiuto. E qui casca l’asino.

«Il problema di affidarsi a un’altra persona è che è un’altra persona» – dice l’amico più caro a Gerolamo. «Perché io sono io. Ma tu chi sei?»

Capita con gli amici, con i famigliari, con le persone che conosciamo meglio, che d’un tratto rivelano l’insondabile mistero che sono. Un mistero che capita di sperimentare del tutto oltre le aspettative, oltre il merito o la condanna che ritenevamo giusti per noi, quando siamo stati abbracciati.

«Educare», dice don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria e guida della comunità Kayros di Milano: bisogna educare. E chi ha la fortuna di passare per la comunità, guardando i ragazzi che vivono con don Claudio, può vedere perfettamente che non si tratta di educare alle “buone maniere”, o a non delinquere – quello può venire poi come frutto. In questa comunità l’asticella è molto più alta: si vuole educare ad amare la propria libertà. Alla possibilità di decidere per il bene, che è anzi tutto il bene di sé, e quindi degli altri. Educarsi a vivere la propria libertà come “tempo propizio” (significato letterale del greco kayros), come tempo per sé, perché pieno di significato. Educarsi, nessuno escluso, alla stessa “scuola” di libertà. Per crescere come adulti che si lasciano abbracciare, che si sanno amati, che sanno amare. E sanno così aprire le sbarre della Grande Gabbia.

The Bear


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