Artisti contro la guerra – 2


Evgeniya Buyanova,  “Goodbye” e “All over”

Siamo alla seconda puntata degli artisti contro la guerra. E questa volta, in pieno conflitto russo-ucraino che non sembra avviato ad una rapida conclusione, un’artista ucraina, Evgeniya Buyanova, riflette sulla guerra dal punto di vista delle famiglie dei soldati e dei soldati stessi, non soltanto del conflitto in corso ma di tutti.

I quadri che presentiamo, sono stato infatti dipinti nel corso del lunghissimo conflitto afgano che vide contrapposti anche allora Russia e Stati Uniti su un terreno neutro.

Vittorio Sgarbi ha scritto della Buyanova:” La guerra non è affatto soggetto facile da trattare in pittura.

Per la cronaca, l’impressione di verità colta direttamente sul posto, l’immagine-simbolo che sintetizzi in una sigla di immediata comunicazione tutto il senso di un dramma, così come una vittoria o una sconfitta, c’é la fotografia a svolgere al meglio il ruolo.

Invece, per la posizione schierata a favore di una delle parti in contesa, ognuna delle quali intenta a magnificare i valori del proprio eroismo bellico disconoscendo quelli del nemico, oppure la predicazione di un pacifismo che spesso è solo astratto moralismo, avulso dal reale contesto del conflitto e per questo incapace di favorirne la conclusione, c’è la retorica della propaganda a farlo, potendo utilizzare i mezzi più svariati per raggiungere lo scopo, arte compresa.

Tutto il resto rimarrebbe a disposizione dell’artista ma è molto meno di quanto non si possa immaginare. Perché i condizionamenti storici e culturali sono stati e continuano a essere così forti da rendere improbo qualunque tentativo di trattare la guerra in modo differente da un soggetto di genere, vincolato da quegli schematismi obbligati a cui in precedenza si è accennato.

Ecco perché, quando Evgeniya Buyanova si accosta al soggetto di guerra, proponendosi di ricavare da esso un discorso individuale che cerchi di non confondersi con i tanti di genere a cui siamo abituati, le va comunque riconosciuto, prima di ogni altra considerazione, il coraggio dimostrato nell’affrontare una sfida impegnativa come poche altre.

Va poi detto che la guerra, nel caso delle opere di Evgeniya Buyanova dedicate all’amato Afghanistan, non è la causa, ma la conseguenza, anche se il suo effetto è diventato così devastante da essere imprescindibile. Quella terra, a cui l’artista deve un’esperienza di vita di straordinaria intensità, per quanto dolorosa, è stata conosciuta, oltre un quarto di secolo fa, in una situazione di guerra, quando la vecchia Unione Sovietica contrastava invano le milizie talebane.

Come sappiamo, la guerra non è stata ancora estirpata dall’Afghanistan, anche se la grande potenza comunista non esiste più e al suo posto, a contrastare l’intollerabile inciviltà dei talebani, ci sono gli alleati occidentali, un tempo comprensivi con le loro ragioni.

La guerra, quindi, è diventata il cancro dell’Afghanistan, impossibile rappresentarlo, in ogni suo aspetto, facendo a meno di questa sua malattia, si finirebbe per falsificarlo.

Eppure Evgeniya Buyanova aveva comunque trovato da quelle parti una terra di straordinario fascino, nella natura aspra degli altipiani come nell’incantevole, spontanea dignità della popolazione locale.

L’Afghanistan è una ferita aperta nel cuore di Evgeniya, un dolore mai del tutto risarcito, sebbene la sua vita successiva non si sarebbe dimostrata affatto ingenerosa, una promessa di felicità in un paradiso in terra che solo l’insensatezza del genere umano aveva potuto negarle.

A tanto tempo di distanza da quegli anni, l’artista ha voluto rievocare il suo personale Afghanistan, come in un diario intimo e segreto che viene tolto dal cassetto per essere messo a disposizione di chiunque lo voglia leggere.

Vi troviamo dentro sensazioni ancora forti, come colte da poco, più serene quando si tratta di fare riaffiorare il ricordo del viso di qualche anziano o di un bel bambino in costume locale, straziate e strazianti quando invece si allude all’amore tragicamente perduto.

Nell’uno e nell’altro caso, vengono tradotte dall’artista in una pittura più scabra e immediata di quanto l’artista abbia fatto altrove, non dico nelle spettacolari imitazioni à la maniere dei grandi maestri del passato, dove dimostra al meglio tutta la sua puntigliosa perizia tecnica, ma anche nelle più sciolte opere di paesaggio o di soggetto floreale, debitrici nei confronti della lezione impressionista e post-impressionista.

La ragione di tale scelta è evidente: Evgeniya Buyanova non sta rappresentando ciò che ha ancora sotto gli occhi, lo sta recuperando alla memoria, sforzandogli di conferirgli, alla luce della maturità interiore che l’artista ha conseguito, un nuovo senso che non disconosca il vecchio, ma che lo arricchisca di saggezze che una volta, quando si era giovani, erano ancora tutte da conoscere.

Malgrado le apparenze, insomma, quelle dell’artista sono immagini dal carattere fortemente mentale, fantasmi liberati dal buio del dolore e del rimpianto per essere ricondotti al bagliore caldo e riparatore della coscienza, illustrazioni di un appassionante romanzo di vita in cui la realtà di ciò che é stato può liberamente confondersi con la sua interpretazione in senso simbolista, come capita in quel dipinto in cui la ragazza in divisa militare odora candidamente i fiori oppiacei da cui derivano tanti perversi interessi, decisivi nell’alimentare continuamente la guerra, oppure nel teatrale, disperato slancio che la stessa, indossando stavolta una più femminile sottoveste, rivolge a un amato che ha ormai perso la dimensione umana per pietrificarsi in un monumento, evocando così i modi più caratteristici del manifesto di propaganda per comunicare nella maniera più efficace, in termini di valore universale, direi, tutta la straripante portata della sofferenza provata nell’occasione.

Non c’é dubbio, quello di Evgeniya Buyanova lungo i sentieri di un Afghanistan perduto che l’arte le ha permesso di ritrovare vuole essere un percorso psicanalitico di rinascita, di definitiva pacificazione con la guerra di sentimenti contrastanti che si porta dentro.

Un tale percorso purificatore è una via che potrebbe finalmente portarla, avvalendosi anche della sua forte tempra religiosa, a godere di una rinnovata serenità interiore come mai ha provato prima nella vita.”

Oggi, Evgeniya Buyanova, impegnata in prima linea in Gran Bretagna dove vive, nell’assistenza a tutti i profughi ucraini che bussano alla sua porta organizzando una vasta rete di solidarietà, rivede il dramma dell’Afghanistan nella terra in cui è nata.

Tutti i luoghi della sua infanzia sono ormai ridotti ad un cumulo di macerie, qualcosa di inimmaginabile ai tempi in cui l’Ucraina era il granaio dell’Unione Sovietica e la regione militarmente più strategica vista la sua apertura sul Mar Nero.

Lo sguardo della ragazza che saluta il suo amato in “Goodbye” e la sua disperazione al ritorno della sua salma in “All-over”, non come quella di un eroe ma come il simulacro dei suoi sogni di felicità infranti, sono eterne e valide per tutte le guerre.

Una potenza espressiva senza precedenti a cui basterebbe cambiare solo i colori delle divise o delle bandiere per rendere immortale l’espressione più viva del dramma umano di tutti i conflitti visto dal punto di vista non solo delle vittime dirette delle guerre ma anche dei soldati e delle loro famiglie, succubi anch’essi delle logiche di potere che alimentano la barbarie della guerra stessa.

Gian Burrasca


Se ti è piaciuto l'articolo, condividilo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *