Un flop annunciato


All’indomani della netta affermazione del centrodestra alle elezioni regionali di Lazio e Lombardia si rimane stupiti dai commenti degli sconfitti, soprattutto dalla sorpresa per un risultato in gran parte già previsto dai sondaggi. Se il dato dell’astensione record verificatosi non ha precedenti – e ciò pone sicuramente un tema di rilevanza politica trasversalmente agli schieramenti -, nondimeno le indicazioni uscite dalle urne sono lampanti per tutti i partiti che si trovano oggi all’opposizione.

Dopo il 25 settembre abbiamo assistito a fenomeni stucchevoli tanto nel Pd, quanto nel terzo polo, per non parlare dei pentastellati.

I Dem si sono infilati in un melodramma identitario senza fine, trasferendo sul congresso e sull’elezione del nuovo leader una crisi ben più profonda, di idee, programmi, autorevolezza. La pochezza della proposta del Pd ingigantisce oltremodo la solidità di un centrodestra, oggettivamente modesto, sia negli uomini che nei programmi. Giorgia Meloni dimostra nel frattempo una disinvoltura per certi versi inaspettata nella sua interlocuzione parlamentare ed europea, semplicemente esibendo una risolutezza che rassicura tanto gli elettori che i mercati. La strada davanti a sé appare spianata: da qui al termine della legislatura ci saranno di fatto solo le consultazioni europee. Ma non ci si devono attendere scossoni tellurici: il Governo è saldamente nelle sue mani e le Regioni che contano sono governate dalla sua coalizione. Certo, il destino è nelle sue mani, ma non si vede all’orizzonte qualcosa come un’offerta politica in grado di indebolire il suo tran tran di compromessi all’interno della compagine di centrodestra, che fa parlare di sé solo per le intemperanze più o meno scomposte dei suoi componenti, alla ricerca di un riconoscimento politico di un peso che elettoralmente rimane modesto.

Il Partito democratico è vittima di una autonarrazione immaginaria come partito della garanzia e della stabilità e non si accorge che la gente lo evita proprio per l’indecifrabilità della sua identità, che oscilla tra i distinguo effimeri e contraddittori nella dialettica con gli altri partiti all’opposizione. La gestione tentennante e folkloristica della scelta del proprio leader rivela tutta l’obsolescenza delle liturgie di un apparato che si è appiattito su un pensiero talmente debole da aver disorientato gli appartenenti ai propri bacini elettorali storici. La quaterna dei candidati alla segreteria, con Bonaccini presunto vincitore, non fa che confermare l’insipienza complessiva di una leadership che si specchia narcisisticamente nella purezza della democraticità del metodo delle primarie per evitare di costruire una piattaforma di proposte alternativa al conservatorismo piatto del centrodestra.

Non va meglio nel terzo polo. Qui certi contenuti ci sarebbero, la costituenda classe dirigente è giovane e competente, ma il leader fa cilecca. Calenda pecca sistematicamente di professoralità, ma non è più il tempo di questi salamelecchi. Mentre la sua boria invade i social di lezioncine per tutte le stagioni e su ogni argomenti, il Paese reale è già altrove. Ha bisogno di avere certezze, lavoro, stabilità, prospettive. Stare lì a rintuzzare quasi bizantinamente ogni esternazione degli avversari, non solo non aiuta, ma alla fine stomaca. Del resto, il suo compagno di viaggio Matteo Renzi, si è talmente defilato da insinuare il dubbio che al terzo polo ci credano solo in pochi, soprattutto in Italia Viva.

Sui cinquestelle deve stendersi un velo di pietà, qui non ce la facciamo a sparare sulla croce rossa. L’avvocato d’Italia è vittima del personaggio che si è creato: peccato che il copione non sia più riconoscibile, impaludato in un’isteria che difficilmente fa presa sull’elettorato.

Non c’è da stare allegri. Il capitale umano italiano c’è ed è eccellente, in ogni settore. Ma ben si guarda dall’aderire alle sirene della politica. Troppo grande il rischio di finire nel tritacarne di una politica che premia il pelo sullo stomaco anziché il sale in zucca. Ed è difficile dare loro torto. Infatti quando si sente dire che ci sono troppi talk show dove si parla di tutto e di più all’interno di un recinto vagamente politico, si dice una cosa vera fino a un certo punto. Infatti, il pubblico assiste a questo teatro con una certa puntualità e tuttavia non ne deriva né denigrazione né mobilitazione. Segno evidente che il sistema appare inscalfibile.

Potrebbe essere anche che le cose non vadano poi tanto male, nonostante la politica. In fondo l’astensionismo non è solo disimpegno, ma convinzione che un mediocre manovratore oggi come oggi sia meglio di un’alternativa paludosa e decadente che ingenera un fastidio difficilmente sopportabile.

The Squirrel


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