Vademecum per elettori di sinistra


Sembra assodato che, con i tempi che corrono, pensare di votare alle prossime primarie sia, per l’elettore del PD, una forma di perversione la cui gravità è inferiore solo all’idea di candidarsi alle medesime. Neanche quelli che si limitano a ragionarci sopra devono essere del tutto a posto, e tuttavia c’è almeno un’osservazione che pare giusto fare. Questa: nell’attesa di capire quale candidato meriti fiducia, incarnando l’ambitissimo ruolo del ”meno peggio”, già da adesso si può dire che non sarà Stefano Bonaccini.

 Tra le dichiarazioni (programmatiche? esistenziali? ad minchiam?) udite in questi giorni dal governatore dell’Emilia-Romagna, ce ne sono infatti almeno due che lasciano basiti. Una riguarda la disponibilità ad imbarcare nell’eventuale “suo” partito Dino Giarrusso. L’assoluta sconvenienza di tale apertura non risiede nella comprovata capacità dell’ex Iena televisiva di farsi trombare quasi in ogni sfida elettorale affrontata fin qui, con la sola eccezione delle europee del 2019. Non risiede nemmeno nella rimarchevole quantità di veleno che negli ultimi anni il Giarrusso ha vomitato addosso alla sinistra – diciamo – tradizionale (ma a questo riguardo Bonaccini, ragionando non troppo diversamente da come avrebbe fatto mio nipote seienne, ha precisato che si aspetta almeno che quello si scusi). Risiede, piuttosto, nel fatto che questo ex-grillino rappresenta ed incarna alla perfezione – come sa benissimo chi abbia assistito anche ad uno solo dei suoi innumerevoli e desolanti interventi televisivi – le caratteristiche più deteriori della galassia 5 stelle: becero populismo, aggressività spinta, presunzione di onniscienza, convinzione di avere l’esclusiva della moralità. Mentre ipotizza che questa roba qui sia compatibile con il PD, l’aspirante neo-segretario si colloca in una linea di perfetta – e tragica – continuità con i suoi predecessori, i quali hanno dimostrato di poter sacrificare il buon nome della ditta ai possibili voti che avrebbe portato gente come Pierferdinando Casini e ad un’ipotetica alleanza con la Carfagna e la Gelmini, e rende di fatto completa (irreversibile?) la mutazione del partito nella DC del ventunesimo secolo: un contenitore buono per ogni evenienza e per ogni inquilino, mosso dall’idea che il potere sia un fine e non un mezzo.

 Ma Bonaccini ha detto anche dell’altro, e cioè che, qualora dovesse vincere, non si sogna di abbandonare il ruolo di presidente di regione. Qui si somma ad un vecchio fastidio, suscitato dall’abitudine essenzialmente irrispettosa di accumulare incarichi pubblici come se per adempiere al meglio a ciascuno di essi fosse sufficiente impegnare ogni giorno poche decine di minuti dei propri pensieri, delle proprie parole e delle proprie azioni, la certezza nuovissima di trovarsi di fronte ad una colossale sottovalutazione dei problemi. Di fronte al cumulo di macerie molto ben sintetizzato dai quasi sette milioni di voti perduti in neanche un decennio, servirebbe qualcuno che ci si dedichi h.24, ad una ricostruzione che sarà inevitabilmente lunga e difficile. A meno di non essere Mandrake. Siccome al momento Bonaccini può vantare maggiori attinenze col mio nipote seienne che con Mandrake, appare anche per questo inadeguato.

 Il guaio, per la sinistra e forse anche per il Paese, è che alla fine Bonaccini vincerà.

Ellery


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