SUNCOAST, AD ASPETTARE LA MORTE SI DIVENTA GRANDI


Come si fa a stare davanti, e insieme, a un fratello che sta morendo? Non parla, non vede, (sente…?), non si muove, vegeta, in attesa dell’ultimo giorno, quando il tumore al cervello avrà completato il suo corso: come si fa a starci vicino? Come si fa quando sei una ragazzina, che chiede soltanto una vita da “normale adolescente” e si ritrova invece a fare i conti con questo genere di sfida…?

Ce lo chiede “Suncoast”, film appena distribuito in Italia da Disney+, scritto e diretto da Laura Chinn, che debutta alla regia per regalarci un po’ della sua vita: la dedica al fratello Max, in apertura dei titoli di coda, rivela che non si tratta di un esercizio di stile. E lei ce lo dice bene, ce lo mostra chiaramente, che a stare davanti alla morte che arriva non ce la si fa da soli.

La faccia di Doris (bravissima Nico Parker, qualcuno la ricorderà in “The Last of Us”) porta l’ombra della solitudine, il grande male, apparentemente incurabile, che affligge anche le ragazze e i ragazzi che la circondano a scuola – così vivi, ai suoi occhi, eppure così fragili. E affligge anche più duramente gli adulti, primi, veri “untori” di questa mortale malattia. Spesso e volentieri facendo come se non ce la portassimo dentro, come se non fosse rilevante, come se le tante cose (giuste e sacrosante) da fare potessero colmare la voragine che abbiamo nel cuore. Ecco, allora, la traiettoria della madre di Doris (Laura Linney), presa nell’ultimo miglio del percorso verso la morte del figlio, ricoverato dentro un hospice – il Suncoast del titolo – al centro di polemiche e manifestazioni; tra i suoi ospiti, infatti, annovera una donna sul cui “fine vita” stanno battagliando attivisti cristiani (che la vogliono mantenere in vita a tutti i costi) e famigliari (decisi a staccare la spina). Di fronte al mistero della morte, suggerisce la regista, meglio presentarsi in punta di piedi, come fa Doris la notte che si trova per caso davanti alla porta di questa donna oggetto del dibattito pubblico. Lei stessa, Doris, risponde alla sollecitazione dell’insegnante in classe per dire che «bisogna esserci», non si possono fare lezioni o dichiarazioni programmatiche: è la vita da vivere, per morire!! E la vita ha bisogno di un luogo dove crescere, dove essere alimentata, dall’abbraccio che vince la solitudine.

Due inquadrature, allora, due quadri, da tenere col fermo-immagine.

L’ingresso della madre di Doris nella cappella dell’hospice, davanti alla quale si è già fermata senza sentire davvero il bisogno di entrarci: lo fa, si siede, scoppia a piangere. Sta lì, con tutta la sua impotenza a salvare il figlio, con tutto il suo sentirsi creatura finita.

La seconda scena, l’attesa di Paul (Woody Harrelson), strampalato attivista cristiano che Doris ha imparato a conoscere nel suo andare avanti-indietro dalla Suncoast: lui è lì ad aspettarla, semplicemente per abbracciare il suo dolore, per viverlo con lei.

Di questa pellicola sappiamo già come andrà a finire. Esattamente come sappiamo (tutti) che il giorno della nostra morte ci attende. È sufficiente riscoprirci “creature”, riconoscere che non ci facciamo da noi, che non ci “produciamo” da soli e che abbiamo una data di scadenza…?

No, non basta.

C’è un fattore che rimane fuori. C’è un grido che scoppia dal cuore, per dire, per urlare – magari silenziosamente – che non finisce tutto, che la morte non è l’ultima parola, perché siamo amati.

Perché la vita è preziosa, ogni vita è preziosa, è donata, a tal punto che nemmeno la morte può cancellare questo tesoro. Forse vivere, fino a morirne, è rispondere a questo amore.

The Bear


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