CHINATOWN A KIEV


Premetto che non sono favorevole a nessuna guerra anche se non sono un pacifista, parafrasando Gino Strada, ma quello che mi stupisce è la “retorica della ricostruzione”.

Sono molto sorpreso dal susseguirsi delle conferenze bilaterali e multilaterali per la ricostruzione dell’Ucraina, la cui organizzazione non è certo gratuita ed in cui si dà per scontato l’esito di una guerra che invece sembra molto incerto e comunque proiettato su tempi lunghi.

Un osservatore esterno potrebbe avere l’impressione che la guerra stessa sia stata studiata a tavolino fin dall’inizio come una partita a Risiko in cui però i giocatori si mettano d’accordo in anticipo su chi debba essere il vincitore.

Se non fosse così, sarebbero fiumi di denaro gettati al vento.

Il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa devastata dopo la Seconda Guerra Mondiale fu annunciato il 5 giugno 1947, in uno storico discorso all’Università di Harward dall’allora segretario di Stato americano George Marshall, dopo ben due anni dalla fine ufficiale della stessa anche se fu avviato in tempi molto rapidi.

Ipotizziamo un altro scenario. Alle prossime elezioni americane, il 5 novembre 2024, Joe Biden sarà sconfitto da un nuovo presidente “isolazionista” e magari anche contrario alla NATO che annuncerà un disimpegno statunitense dall’appoggio all’Ucraina. A questo punto, resterebbero soltanto un’Unione europea non sempre coesa e la Gran Bretagna a sostenere il governo e l’esercito ucraino contro l’Armata Rossa, la quale finirebbe per trionfare magari non su tutto il territorio ma su buona parte di esso, dividendo l’Ucraina in due nella migliore delle ipotesi.

E solo a questo punto scatterebbe effettivamente la ricostruzione ed il rientro dei profughi (per lo meno quelli disposti ad accettare il governo filorusso o addirittura l’annessione.

La Russia, stremata da quasi tre anni di guerra difficilmente avrà le risorse per la ricostruzione ma potrebbe entrare in campo la Repubblica Popolare cinese, la quale avrebbe sicuramente i mezzi finanziari ma soprattutto umani per portare avanti un simile progetto.

È possibile quindi ipotizzare una migrazione di qualche milione di cinesi in Ucraina con un nuovo assetto etnico e sociopolitico. Una China Town su scala nazionale che sicuramente finirebbe per alterare gli equilibri interni non soltanto ucraini ma anche dell’intera Russia.

Oltre al rischio che gli appetiti strategici russi si estendano anche ad altri paesi limitrofi e non del continente europeo.

Sarebbe quindi necessario, se vogliamo veramente salvaguardare le nostre democrazie occidentali essere maggiormente pragmatici e non dare l’esito della guerra per scontato e cominciare ad investire in un’ipotetica ricostruzione, ma ipotizzare una strategia difensiva nel caso in cui l’orso russo ed il dragone cinesi si installino stabilmente alle porte del nostro continente.

Gian Burrasca


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