“YELLOWSTONE”, PADRI NE ABBIAMO…? A PROPOSITO DELLA BATTAGLIA DEL CUORE


«Il gusto dell’amore sta nel mutamento», dichiara Don Giovanni nel primo atto della commedia di Molière. E chi più di lui può alzare la bandiera dell’amore come libertà assoluta?  Libertà slegata, cioè, da ogni vincolo – secondo il significato dell’aggettivo latino, absolutu, passivo di sciogliere, togliere nodi, legami. C’è, invece, chi si lega, chi appartiene con una forza tale da spenderci la vita intera, proprio in nome dell’amore. Senza cambiare amore. Dedicando la vita perché quella bellezza sia sempre così, presente a lui, così com’è. È decisamente un’altra storia, rispetto alle avventure del libertino sinonimo di “rubacuori”, guardato con simpatica romanticheria nell’immaginario contemporaneo. Un’altra storia, che usa oggi quello che era il teatro ieri: la narrazione video, la Serialità televisiva.

Una volta di più ringraziamo questo linguaggio – e i suoi autori – per metterci davanti agli occhi quella strana situazione che sta sotto al nome di “appartenenza”. Che può rivolgersi ad una persona, una famiglia, un popolo, come anche ad una terra. Un luogo chiamato “casa”.

Ecco allora l’infinità di una storia d’amore che si rispecchia nell’immenso spettacolo dei cieli, delle montagne, delle praterie e della natura del Montana. La mette in scena “Yellowstone”, alla quinta stagione, ora in onda su SKY (e Now TV). Ridurre l’epopea di questi cowboy dei giorni nostri ai termini brutali, violenti, così volutamente scorretti quali sono i termini del racconto ideato da Taylor Sheridan, sarebbe davvero perdersi una grande occasione. Quelle che fa John Dutton – titolare del ranch che dà il nome alla Serie (un Kevin Costner nel suo ruolo definitivo) – sono le scelte di una guerra, iniziata e condotta in nome di una storia d’amore. Quella che lui per primo vive con la sua casa, con la terra ricevuta, con l’eredità lasciata da suo padre a lui, e da suo nonno a suo padre prima, e che lui lotta fino allo stremo per poterla lasciare ai suoi figli.

Ma che succede quando i figli non la vogliono, questa eredità ? Quando non la capiscono, questa storia d’amore..? E con questa non capiscono cosa possa significare avere un luogo dove affondare le radici, dove coltivare la pianta della propria famiglia, e vederla mettere frutto.

È questa la sfida, è su questa terra di confine tra libertà (ce ne sono di più grandi…?), tra un padre e i suoi figli, che si gioca la partita. La partita tra libertà e solitudine.

Un secondo “grazie”, allora, a “Yellowstone,” per svelare un’altra delle menzogne che infestano il nostro tempo, la nostra cultura: che la vita sia bella, felice, quando scompare la sofferenza, la fatica, la lotta. Quando cioè si “sta bene” – o, meglio, quando si afferma il benessere come ideale.

Cosa che ci porta dentro la grande mistificazione, forse la più grande mistificazione tra quelle che viviamo in questi giorni (così disgraziati e così fecondi): il significato del nostro cuore. Tanto bistrattato, tanto ridotto a spugna di sentimenti ed emozioni, tanto abusato e malconcio, eppure pronto, a tratti, a tornare a splendere nella sua verità. Nella sua sete d’infinito. Nel suo bisogno essenziale, definitivo, di essere amato.

«Il piccolo ha avuto una vita perfetta» – spiega John Dutton a sua nuora Monica, che piange sulla tomba del suo secondo figlio, vissuto solo 10 ore. «Solo noi sappiamo che è stata breve: lui ha conosciuto solo te e il tuo amore».

Potremmo chiudere qui, che ce n’è in abbondanza, di provocazioni a vivere.

Ma c’è dell’altro. C’è qualcosa da guardare. Sparso a piene mani, in più episodi, a brillare come i fiori di pesco, che s’illuminano per dirci che è primavera.

È un gioco di sguardi, meglio, un dialogo di occhi che cercano e chiedono. È lo sguardo di una figlia, Beth (Kelly Reilly sarà difficile che possa dare più di così), che cerca lo sguardo di suo padre su di sé, per imparare a guardare la terra come lui, per entrare in quel suo sguardo, per restare nel suo abbraccio.

The Bear


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