ANDARE OLTRE LO STRAPOTERE DEL SENTIMENTO


Che la nostra sia un’epoca di disregolazione emotiva e di disordine pulsionale non è certo una novità. Né è così facile immunizzarsi dalla tempesta emozionale che pervade ogni anfratto del legame interpersonale. L’esaltazione maniacale delle emozioni, assunte come criterio dell’umano comportamento, è data per scontata: “va dove ti porta il cuore” sembra essere l’imperativo dogmatico dominante, la bussola universalmente adottata per orientarsi nelle relazioni, affettive e non solo.

Ma cosa intendiamo quando diciamo “cuore” oppure “sentimento”? Se qualcuno azzardasse un’indagine nel novero delle proprie conoscenza si troverebbe a constatare che ci troviamo di fronte a una coincidenza semantica, praticamente senza eccezioni: cuore e sentimento sono considerati – di fatto – sinonimi.

La cosa è molto pericolosa, ambigua e persino patogena. Andiamo però per gradi.

Anzitutto occorre rilevare che non c’è una situazione di stato di coscienza priva di una connotazione emotiva: non esiste qualcosa come uno stato d’animo neutro, giacché la stessa indifferenza è una presa di posizione. L’indifferenza potremmo dire che è un affectus che si operativizza in una modalità specifica di presa di distanza da qualcosa o qualcuno: contiene cioè una quota di avversità.

Ogni relazione con sé e con la realtà è, dunque, affettivamente colorata. In misura proporzionale all’interesse che qualcuno e qualcosa ci genera, emerge con maggiore o minore prepotenza la voce del sentimento. Il sentimento è quindi una specie di “giudizio” non verbale, in qualche modo automatico e incontrollabile che si manifesta ogniqualvolta entriamo in relazione con il mondo. Più precisamente: è una reazione emozionale indipendente a un avvenimento.

Gli è, peraltro, che – come evidente – l’emotività non esaurisce, da sola, l’intero spazio della soggettività, anche se, in determinate circostanze, sa esprimere una tale potenza di condizionamento del comportamento conseguente che sembrerebbe impossibile arginarla. Si può essere tramortiti o in balìa della paura, oppure spianati e immobilizzati da un dolore e dalla correlata sofferenza.

Cosa succede allora se l’emozione si espande nel tempo e nello spazio della nostra vita a tal punto da catalizzare attorno a sé tutta la nostra soggettività? E, inoltre: in che modo qualcosa dell’ordine della reazione protrae la sua influenza molto oltre il momento in cui si è manifestata, scatenando una serie incontrollata di conseguenze? E ancora: come mai il pullulare fuori controllo dell’emotività soggettiva esaspera l’affermazione dell’individualità e impedisce di convergere su qualcosa di oggettivo?

La Babele emozionale può incontrare qualcosa di meno cangiante, soggettivo, relativo – e quindi autistico – che sappia valorizzare gli affetti senza rimanere travolti?

Questo “qualcosa” mette conto di sviscerare cosa intendiamo quando utilizziamo la parola “cuore”. Quale che ne sia l’uso corrente, qui noi proponiamo di designare con la parola cuore quella dimensione inconscia, ossia operativa a nostra insaputa e fuori dalla nostra possibilità di essere disattivata, che si esprime in un desiderio di bene, per sé e per gli altri. Di bene, di bello, di giusto, di vero. Pienamente umano, insomma.

L’operatività del cuore, la sua stessa vita, si manifesta con una tale eccedenza su tutto ciò che è controllabile, da rivelare lo statuto della sua oggettività. Che, detto in un altro modo, significa che io non ne posso disporre a piacimento, non posso manipolarlo, deviarlo, corromperlo. Finché c’è un cuore che batte, questo permane incommensurabile ad ogni tentativo di riduzione, assimilazione, appiattimento. È come se ci fosse un dispositivo vocazionale inconscio che non dipende da me. La sua eccentricità mette in scacco ogni presunzione di padroneggiamento dell’uomo: pensiero, emozione, sentimento ne escono sopraffatti.

Un caro amico un giorno si è lasciato uscire una delle frasi che più indelebilmente si sono iscritte fin nel midollo di chi scrive: “Ciò che ti corrisponde non lo decidi tu”. Ossia, ciò che detiene la prerogativa di pacificare l’istanza inesausta di bene del tuo cuore, è solo il cuore stesso che la può riconoscere. Ed è un cuore che non fa sconti nemmeno a se stesso.

Questo primato ontologico del cuore, questa anteriorità “ermeneutica” che fonda la possibilità stessa di ogni rapporto vero con tutto, è anche il fondamento della libertà. Sì, perché se il compimento della libertà umana è l’adesione al suo bene totale, ossia se la pienezza dell’umanità propria di ciascuno si verifica aderendo solo al bene più grande possibile, la prossimità attenta, semplice, pulita e ricercata dell’uomo alla domanda del cuore rende attuale, ossia in esercizio, la potenzialità di una libertà altrimenti catturata da qualcosa d’altro, nella sua parzialità.

Perciò, se esistenzialmente non possiamo mai sperimentare la libertà totale e assoluta, in quanto nessun particolare è il tutto, e quindi nessun oggetto parziale può svelarla nella sua pienezza, tuttavia rimane umanamente possibile essere liberi. E questo accade nella fedeltà all’oggettività della natura esigenziale del cuore, come richiamo permanente al vero che buca ogni velleità mistificatoria che noi o l’altro (chiunque esso sia) può essere tentato di introdurre.

The Squirrel     


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