La pedagogia speciale… sia veramente ‘speciale’


E’ sempre più ricorrente la richiesta alla scuola di personalizzazione e di
individualizzazione. Ogni studente a suo modo – si argomenta – ha bisogni peculiari,
fragilità e punti di forza unici ed ha diritto, nella nuova pedagogia del diritto al successo
formativo – ben oltre il diritto all’accesso post sessantottino – a percorsi ‘customerizzati’ e
‘sartoriali’. Istanza condivisibile e realmente rispondente al mandato costituzionale di una
scuola pubblica in grado di rimuovere gli ostacoli all’apprendimento secondo alcuni, triste
deriva ‘buonista’ del rigore dei ‘bei vecchi tempi’ secondo altri. Comunque la si pensi,
magari evitando estremismi manichei, il vero pericolo di questo dibattito è obliterare
(‘annacquare’, temono in molti) i diritti acquisiti degli studenti più fragili per diagnosi
accertata: quelli, cioè, che sono tutelati dalle norme ai fini dell’integrazione scolastica dei
diversamente abili (dalla legge 104 del 1992 ad oggi) e ai fini della compensazione di un
disturbo specifico come – tra i tanti – la ormai notissima dislessia (dalla legge 170 del
2010). Senza dimenticare i non madrelingua italiana, che hanno diritto ad apprendere
con gradualità l’italiano che per loro è considerata ‘lingua seconda’ rispetto alla lingua
madre.
Risposte individualizzate a esigenze specifiche: è questa l’area, insomma, della
pedagogia speciale e della personalizzazione dovuta nei percorsi degli stranieri
neoarrivati. Nel progettare e attivare risorse in questo ambito, strategica è la promozione
da parte della scuola di un cambiamento culturale, giacché non solo di
organizzazione/risorse si tratta, ma di cultura e di un paradigma antropologico in senso
ampio. L’Italia ha operato la scelta di ancorare la disabilità alla certificazione sanitaria e,
per quanto in Provincia autonoma si sia fatta una scelta opposta – di superamento della
logica della legge 104 quale unico segnale di bisogno speciale (ai sensi della Lp 5/06 art.
74 e connesso Regolamento del 2008) – la cultura delle famiglie appare ancorata a quella
visione meccanicistica per la quale al certificato ex l.104 devono corrispondere – quale
unica offerta della scuola – determinate prestazioni in termini di ore di organico di
sostegno, non necessariamente qualità educativa. In più: le famiglie oggi sono player
sempre più forti e agguerriti nel chiedere reale inclusione; se negli anni ’70 ci si fermava
all’istanza di una generica socializzazione sull’onda dell’abolizione delle classi differenziali
(l.517/77), oggi si chiede anche qualità degli aspetti abilitanti/apprenditivi per i disabili,
auspicando una continuità tra azione della scuola e delle strutture specialistiche. La sfida
quindi – efficacemente prospettata a Trento da Dario Ianes – è riuscire a stilare un patto
educativo con le famiglie degli alunni speciali per concordare livelli essenziali di qualità
che non passino necessariamente attraverso un n numero di ore erogate dall’insegnante
di sostegno, ma anche attraverso la qualità di una didattica quotidiana realmente
integrante a opera di tutto il Consiglio di classe, magari supportato da super-specialisti. I
Leq da pattuire con le famiglie possono passare da un protocollo di input (riunioni con i
docenti, con neuropsichiatra, feedback etc.) a uno di output misurato con la customer
satisfaction sulla reale produttività del processo attivato. In questa logica pattizia di
alleanza scuola-famiglia fondamentale è difendere e valorizzare i ruoli distinti delle due
agenzie: insegnanti e famiglie, portatrici di visioni diverse ma conciliabili nel progetto di
vita del disabile. A tal proposito, è auspicabile che nel Progetto individualizzato (ai sensi
del Regolamento 2008), oltre ovviamente all’individualizzazione degli obiettivi del
curricolo delle discipline, trovi posto anche la personalizzazione verso quelle competenze
che si desidera lo studente raggiunga e che non sono attinenti al curricolo (le cosiddette
attività personali e funzioni mentali). In tal senso il piano didattico diventa Progetto di
vita globale che guarda anche al futuro del soggetto con disabilità. La visione su questa
nuova frontiera della pedagogia speciale si confronta anche con il realismo degli organici
e delle risorse umane e finanziarie a disposizione della scuola: in alternativa all’attuale
profilo dell’insegnante di sostegno, dalle competenze diffuse piuttosto generaliste
(acquisiste in 400 ore di corso presso le facoltà di Scienze della formazione primaria),
talora inefficaci rispetto all’istanza di un’utenza sempre più esigente e informata,
potrebbe configurarsi l’ipotesi di un corpus ristretto di iper-specializzati sulle singole
disabilità, itineranti e impiegati per diffondere competenza nei consigli di classe,
affiancando i referenti dei bisongi speciali per l’organizzazione dell’intero organico
funzionale della scuola verso l’integrazione/inclusione. La formula forse garantirebbe
quella full inclusion che auspica la personalizzazione per tutti e la realizzazione dei Dep
(Diritti educativi personali; cfr. pedagogia inglese e sudamericana, Hopkins e altri, in Atti
del convegno Adi 2010: Perché mi bocci?).
In tale contesto occorre anche brevemente riflettere sulla peculiarità trentina del
referente delle iniziative interculturali ex Regolamento stranieri 2008, emanato ai sensi
della Lp 5/06, art. 75. La figura deve essere correttamente percepita non come
strumento di delega deresponsabilizzante per gli altri docenti rispetto alla
interculturalità: se è corretto ipotizzare che il referente coordini, monitori, raccordi le
iniziative all’interno della scuola – e in connessione con il territorio – è altrettanto cruciale
che egli diffonda – col supporto dei colleghi – un nuovo paradigma dell’interculturalità
agita all’interno dei consigli di classe. Tale nuovo modello dovrebbe superare la stagione
della ricerca di ciò che differenzia come marca distintiva tra i popoli – paradigma in voga
un decennio fa all’insegna della celebrazione, in feste dei popoli o in momenti rituali
collettivi, delle peculiarità dei culti religiosi, delle diverse modalità di alimentazione, della
differente interpretazione dei ruoli di genere etc. Tali occasioni, mentre sembrano
conferire pari dignità alle culture altre in momenti di eccezionalità, determinano poi
l’effetto di mettere da parte quelle differenze nella quotidianità, in una pretesa di
integrazione forzata e rimozione dell’alterità. Piuttosto occorrerebbe sottolineare
l’esistenza di diritti universali della persona umana, nella irriducibile differenza dei
paradigmi di popoli e culture storicamente determinate, di quei valori che segnano
l’identità terrestre (Morin) o, più specificamente per l’Europa mediterranea, l’infinita e
ciclica declinazione dell’uno e del molteplice che la connota.

WomanInRed


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