Ieri e oggi


Vita e Destino di V. Grossman è uno dei capolavori del Novecento. Confesso di averne più volte intrapreso la lettura senza condurre a termine l’impresa; soltanto nel 2020, complici i vari periodi di lockdown sono riuscito a terminarlo. Naturalmente, si tratta di un tesoro inesauribile, che non si finisce mai di scoprire, come del resto accade con i grandi romanzi della letteratura. Tra i momenti più provocanti, per me, vi è il racconto della sofferenza legata alla shoah, che Grossman fa rivivere dall’interno: non aggiunge quasi mai commenti, ma da come descrive la vita, in generale e nei campi di concentramento in particolare, rende direttamente partecipi della vicenda narrativa, compiendo in sostanza una grande operazione di memoria. Ne stralcio un brano per capirci. Durante una “visita professionale” al campo di concentramento, Eichmann si incontra con il comandante del cantiere per verificarne lo stato di avanzamento dei lavori che, di lì a poco e con la massima urgenza, lo avrebbero trasformato in campo di sterminio: «Durante l’ispezione della camera a gas, era stata preparata una piccola sorpresa. Al centro della camera i progettisti avevano posto su di un tavolino vino e tartine e Reineke aveva invitato i due dirigenti a bere un bicchiere augurale. Eichmann si dimostrò lieto della gentile trovata e disse “uno spuntino lo faccio volentieri”. Consegnò il berretto al guardiano e si sedette. Il suo gran viso si fece d’un tratto bonariamente assorto, come quello di milioni di uomini che apprezzano il cibo quando siedono davanti ad una tavola imbandita. Reineke, in piedi, versò il vino e tutti presero in mano il calice aspettando il brindisi di Eichmann. In quel silenzio di cemento, in quei bicchieri pieni, c’era una tale tensione che a Liss [l’altro dirigente] parve che il suo cuore non avrebbe potuto reggere. Desiderava sentir tuonare un brindisi rumoroso al trionfo dell’ideale tedesco, ciò avrebbe allentato l’atmosfera. Ma la tensione invece di smorzarsi cresceva, mentre l’Obensturmbannführer [Eichmann] masticava un panino. “Cosa aspettate signori?” chiese Eichmann. “E’ un prosciutto fantastico”. “Noi aspettiamo il brindisi del padrone di casa” fece Liss. Eichmann levò in alto il calice. “Agli ulteriori successi del nostro servizio che, mi sembra, sono degni di nota”».

Quando lessi questo macabro kick off mi sentii gelare il sangue e, quasi di fronte ad un eccesso incomprensibile, mi ritrovai a ripetere a me stesso “non è possibile che si sia giunti a questo punto”. Il brano citato mi è tornato improvvisamente alla memoria leggendo in questi giorni un reportage sulla Tunisia, dove nella città di Sfax si fabbricano oggi altri simili strumenti di morte. Riporto da Il Corriere della Sera del 3 aprile scorso: «Awabed è la nuova Fincantieri degli scafisti tunisini. Lo sanno tutti che cosa si costruisce in quei cubi grigi di cemento grezzo, lungo la C81. Rallentate l’auto, abbassate i finestrini e sentirete l’urlo della fresa, il saldatore che ci dà dentro. L’ultima moda, al salone delle carrette del mare, sono queste vasche ferrose per detriti umani. Sembrano bare, e spesso lo sono. Lamiere sottili e affilate, assemblate alla bell’e meglio e perfette per le traversate low cost, 900 euro fino a Lampedusa, a Pantelleria, alle coste siciliane. I nigeriani, i maliani, gl’ivoriani ormai arrivano così: niente barconi, tutti su gusci che la notte sbucano dalle casette di Sfax, che i radar spesso non vedono e che le navi di soccorso non riescono ad abbordare, perché danneggiano i tubolari. Scafi pronti in poche ore, che costano molto meno d’una barca di legno o di resina, possono portare 50-60 africani, sono instabili e galleggiano poco e imbarcano acqua, ma chi se ne frega anche se affondano col loro carico d’umanità, una notte di lavoro e se ne fabbrica un’altra…».

Credere che la possibilità di male sia concentrata e totalmente esaurita in una sola epoca è un grosso errore, tragico nelle sue conseguenze, potendo portare l’uomo a considerarsi innocente e a non provare più nulla, a non piangere su di sé. Per questo la Settimana Santa, in corso, viene chiamata “autentica”: una settimana all’anno dove il dolore è quasi protagonista assoluto: non resta che guardarlo per imboccare la via della purificazione:

«Cristo alla pace

del Tuo supplizio

nuda rugiada

era il Tuo sangue.

Sereno poeta,

fratello ferito,

Tu ci vedevi

coi nostri corpi

splendidi in nidi

di eternità!

Poi siamo morti.

e a che ci avrebbero

brillato i pugni

e i neri chiodi,

se il Tuo perdono

non ci guardava

da un giorno eterno

di compassione?»

(P. Pasolini, L’usignolo della Chiesa Cattolica).

GLB


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