QUANDO IL NARCISISMO RIDUCE ALL’INSIGNIFICANZA POLITICA


Siamo estimatori della prima ora di Carlo Calenda. È preparato ed ha il pregio di dire cose non geniali ma molto sensate. Su tutti i punti dell’agenda politica. Inoltre ha fondato un partito basato sulle competenze e sui giovani, cosa non da poco nel panorama gerontocratico della politica italiana dove molti uomini e donne occupano i posti che contano allontanando le nuove generazioni dal diritto di essere rappresentate.

Sul Foglio di ieri abbiamo apprezzato la piattaforma programmatica del costituendo partito liberal democratico o, se si preferisce, del riformismo socialdemocratico, il contenitore nel quale dovrebbe confluire in corso d’anno il cosiddetto terzo polo.

Eppure c’è una cosa che a Calenda sfugge, benché sia grande come un elefante e davanti ai suoi occhi.

L’Italia è un Paese particolare nel quale bizantinismo e parrocchiette di bandiera riflettono un carattere popolare, un po’ litigioso e molto fatto di particolarismi. C’è poi quella questione dell’invidia per chi è brillante, una specie di inconfessato risentimento che ha le sue radici molto in là nella nostra storia.

Prima Berlusconi e poi Renzi ne hanno assaporato la forza distruttrice, pur emergendo sulla scena da culture e ambienti molto diversi. L’uomo della strada sembra non apprezzare affatto l’attitudine sprezzante di chi sa essere leader di successo senza per questo assumere la gravità seriosa di chi ne fa un tratto di consistenza e affidabilità.

D’altra parte la gestione della “macchina del consenso” ha le sue regole, ma soprattutto non può prescindere da chi ne è il destinatario. Non tenendone conto si va invariabilmente a sbattere contro un muro.

Qui abbiamo spesso vezzeggiato la propensione professorale di Calenda il quale, immancabilmente, si propone come quello che la sa più lunga. Per molte cose è davvero così. Però … però la casalinga della Val Seriana, così come il lattaio della Bovisa, di fronte a cotanta irrefrenabile boria, finiscono per pensare: “Fa’ mìa el ridicùl!” e, nell’urna, votano piuttosto la faciloneria rurale dei padani leghisti. Sarà anche solo un problema di linguaggio e di lessico politico, ma tant’è: le idee viaggiano sui voti, quanto alla loro possibilità di essere realizzate.

Il matrimonio tra Calenda e Renzi è sembrato ai più – per quanto necessario (o di riparazione) – destinato a produrre un’inerzia tra opposti narcisismi. Il senatore toscano, già segretario del Pd ed ex premier – sembra molto defilato e intento a guadagnarsi prebende importanti ingaggiandosi come conferenziere in tutto il mondo. È certo che – conoscendo l’animale – sia tutto calcolato. Il Rottamatore nazionale veleggia in un “non luogo” politico, furbescamente spingendo Calenda a fare il lavoro sporco di un tirocinio politico di cui alla fine, probabilmente, lo stesso Renzi raccoglierà i frutti a suo vantaggio. Aspettare per vedere!

Calenda, come detto, ha i numeri. Non è un caciarone, l’ambizione non gli manca, ma pratica un gioco esteticamente piacevole, ma sterile. Non sembra in grado di “buttarla dentro”, come quei centravanti che dopo aver ridicolizzato con mille tunnel i difensori, presi dall’autocompiacimento, la buttano fuori benché siano davanti alla porta da soli.

La metafora calcistica sembra proprio appropriata perché tu puoi essere anche la squadra più forte del mondo, ma quando non tieni conto di come si dispone in campo l’avversario (palesemente più debole e meno dotato) è molto facile che la partita la perdi (di solito uno a zero, ma la perdi).

Non siamo certo noi a dover dare consigli a Calenda, anche se a suo tempo lo abbiamo fatto, e persino per iscritto. Significativamente ci rispose solo il suo vice, Matteo Richetti, il quale – benché forse meno dotato intellettualmente – ha capito che per passare dalle belle idee alla realtà occorre non trascurare nessun particolare. Richetti è un emiliano verace, sa comunicare, è indubbiamente simpatico. Difficilmente potrebbe attivare pulsioni invidiose o antagoniste.

Ne tenga conto il nostro Calenda: talvolta la posta in palio è maledettamente più importante della propria anarchia espressiva, frutto del capriccio di essere riconosciuto, senza cambiare di un millimetro, come il salvatore della patria.

The Squirrel


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