BREVI RIFLESSIONI SULLA PUNIZIONE E RIPARAZIONE


Un feroce dibattito infiamma la nostra società in questi giorni circa l’opportunità o meno di abolire il regime di carcere duro per alcune tipologie di reati e ha diviso la società in giustizialisti (scherzosamente chiamati dal compianto Marco Pannella: “i forcaioli”) e garantisti.

Il tema è complesso e cercare di riassumerlo in breve è tutt’altro che facile ma è ciò che mi propongo di fare nel seguito.

Per onestà intellettuale, premetto però che chi scrive è stato in carcere per lungo tempo e questo potrebbe nuocere alla mia oggettività.

Il mio professore di filosofia al liceo mi ripeteva sempre che la giustizia non è di questo mondo ma dell’altro perché non può esistere un uomo o una donna totalmente razionali e quindi, anche il migliore dei giudici ha emozioni, passioni e sentimenti che non possono non influire sul loro lavoro.

Chi crede in un Dio onnisciente, onnipotente e soprattutto misericordioso, capisce bene che soltanto lui è l’unico giudice immaginabile.

Del resto, le stesse leggi, incluse quelle dettate a Mosè da Dio stesso, sono comunque scritte o trascritte da uomini e possono subire delle importanti variazioni nel tempo e nello spazio.

Solo per portare due esempi: ancora oggi, in alcune comunità tribali, l’omicidio rituale è perfettamente legale come pure l’adulterio viene regolato da forme di poligamia e poliginia.

Pertanto, nel seguito non userò più il termine giustizia ma farò soltanto riferimento ai delitti e alle relative punizioni o riparazioni possibili di qualsivoglia natura esse siano.

Una collettività sociale, composta da una moltitudine di individui differenti per sesso ed età e differenti fragilità personali, ha necessità di una raccolta orale o scritta di norme e di consuetudini per poter regolare non soltanto una convivenza civile e quanto più possibile pacifica ma soprattutto per garantire una certa eguaglianza fra i vari membri della comunità ed evitare fenomeni di prevaricazione dei più forti sui più deboli.

Come si può quindi prevedere, arginare o reprimere i fenomeni di devianza sociale da parte di alcuni individui o gruppi più o meno organizzati?

I metodi sono fondamentalmente due: quello della repressione tramite sanzioni amministrative, detentive e, dove ancora ammesse, corporali.

Concentrandoci soltanto sull’opportunità delle sanzioni detentive affronterò la questione partendo dalla tipologia di reati.

I reati contro il patrimonio sono quelli che attengono alla sfera materiale della vittima anche se chiaramente provocano traumi psicologici, per esempio quando si trova la casa devastata dai ladri.

Inoltre, la vittima non sempre è una persona fisica ma può essere anche un’istituzione pubblica o privata. Per questo tipo di reati, ritengo che la cosa più importante sia per la vittima il rientrare in possesso di quanto perso più un eventuale risarcimento aggiuntivo e quindi penso che la pena detentiva per il reo sia perfettamente inutile per rapporto al recupero della refurtiva e della possibilità di riparare per pagare il risarcimento.

Non dobbiamo dimenticare che un detenuto è comunque un costo aggiuntivo per la società e riguardo alla pericolosità sociale di questi soggetti, se non utilizzano la violenza per il reato, è sicuramente arginabile senza bisogno di escluderli dalla società. Inoltre, tranne i casi patologici di cleptomania che vanno curati con opportune terapie psicologiche, è più importante verificare le motivazioni del comportamento deviante. Chi ha rubato del cibo perché ha fame e non trova né lavoro né carità, è sicuro che lo rifarà appena uscito dal carcere se ha ancora quel bisogno. Infatti, ha solo temporaneamente usufruito del cibo offerto dal carcere ma non ha risolto la causa del suo comportamento. Per risolverlo definitivamente bisogna investire in maggiori opportunità economiche.

Per i reati al patrimonio ambientale, la riparazione è poi fondamentale e far partecipare il reo alla stessa può soltanto aiutare a fargli prendere consapevolezza di quanto ha fatto.

Più delicata è la questione dei reati contro la persona che dobbiamo distinguere, anche a costo di sembrare cinici, in due tipologie: quelli in cui la vittima sopravvive portandosi addosso i segni, visibili ed invisibili, delle violenze e quelli in cui decede.

In quest’ultimo caso, il risentimento ed il rancore dei parenti della vittima oltre all’indignazione popolare, danno luogo, a seconda della struttura della società, a una volontà di vendetta più che di riparazione. Il vero sollievo per la perdita di un familiare può venire solo dalla fede in un’esistenza oltre la morte che nasce da una profonda religiosità e che porta quasi sempre al perdono del reo. In una società desacralizzata, purtroppo, la perdita di una persona cara provoca solo un vuoto esistenziale che impedisce il perdono e rende plausibile che se un reo ha soppresso una o più vite debba vedere la sua annullata o con la morte fisica oppure con la morte civile del carcere a vita (il cosiddetto ergastolo ostativo in gergo tecnico).

Purtroppo, in linea teorica, questo non sarebbe consentito dalla nostra Costituzione che prevede in ogni caso la rieducazione del condannato. Ed il carcere a vita è in chiaro conflitto semantico.

Per ovviare a ciò, è sempre possibile cambiare la Costituzione in un senso punitivo e non rieducativo. È pure sempre una legge fatta dagli uomini in fondo.

Se però siamo in presenza di un perdono da parte dei parenti della vittima, è evidente che un reo non recluso ha maggiori possibilità di riparare al dolore inferto che non stando in carcere per tutta la vita.

Analogo ragionamento, anche se più delicato, se la vittima sopravvive. Infatti, in questa situazione, al di là del possibile perdono della vittima, è da accertare se il reo ha compreso la gravità di quanto fatto e non voglia invece continuare le violenze.

In quest’ultimo caso, il carcere è purtroppo una via obbligata ma per volontà stessa autodistruttiva del reo che non vuole rinunciare ai propri propositi.

Anche qui bisogna fare attenzione ad alcune patologie mentali quali quelle che affliggono per esempio i pedofili, gli stupratori e gli assassini seriali che devono essere curate. L’isolamento a vita è solo un alibi per una società che non è in grado o non vuole investire nella cura di questi soggetti e che trova più comodo isolarli a vita.

Un discorso a parte dobbiamo poi fare per la criminalità organizzata e quella politica (di cui per esempio il caso Cospito).

Premetto che la società democratica basata sul regime dell’economia capitalista e della protezione della proprietà privata in cui viviamo in Occidente, non è l’unica possibile ed esistono sia al tempo presente che nei millenni passati delle alternative.

La criminalità organizzata in determinati territori, non fa altro che creare delle strutture parallele economico-sociali rese possibili non dall’intrinseca tendenza a delinquere dei soggetti appartenenti ma dall’incapacità di una società di assorbirli e modificarli (il caso delle periferie degradate, per esempio).

A questo punto, anche l’esecuzione in massa di tutti i capi e gregari di queste organizzazioni non risolve il problema come pure il regime di carcere duro che li isola dall’organizzazione di riferimento. È come l’idra infernale a cui si taglia la testa che poi ricresce sempre proprio perché è l’inferno stesso in cui vive che ne consente la ricrescita.

Da economista, ritengo che se non si agisce anche sul lato della domanda non si eliminerà mai l’offerta.

Un esempio: è giusto lottare ed investire risorse contro il traffico di stupefacenti ma lo è altrettanto il permettere che i consumatori non sentano più il bisogno di acquistare droga per riempire la loro esistenza.

Se i consumatori non richiedono più sostante stupefacenti, lo spaccio si estingue naturalmente. Io personalmente ricordo che, negli anni ’70, si investiva più in campagne presso i giovani contro la droga che nella lotta stessa al traffico di stupefacenti. Oggi, in una società molto più edonista e che tutto sommato ammette anche un consumo di alcol e droghe leggere quasi come uno stile di vita, non ha senso solo prendersela con gli spacciatori ma anche un po’ con i consumatori, come fanno in alcuni Stati europei.

Altro esempio: in Svezia, per contrastare efficacemente lo sfruttamento della prostituzione, viene sanzionato il cliente più della prostituta che in molti casi è una vittima essa stessa.

E, naturalmente, il traffico si è spostato nei paesi limitrofi perché non si è comunque messa in atto una politica della famiglia efficace al fine di scoraggiare il bisogno di cercare l’amore a pagamento.

Concludiamo con la criminalità politica che riempie le cronache quotidiane.

Come scritto prima, la nostra non è l’unica società possibile e se vi sono al suo interno dei gruppi, anche numerosi, che desiderano un cambio (per esempio i neonazisti in Germania oppure gli anarchici in Italia), bisogna considerare che si tratta di persone profondamente convinte che le norme della nostra società sono ingiuste e che sono anche pronte a sacrificarsi per la loro idea. Non importa se giusta o sbagliata. Del resto, anche i primi Cristiani erano pronti a morire per veder prevalere il loro credo su quelli politeisti dell’epoca. Non si trattava di stabilire delle regole in una società senza regole ma solo di cambiarle.

In quest’ultimo caso, isolare ed eventualmente far morire in carcere un capo di simili organizzazioni, equivale a creare un martire agli occhi degli adepti come poteva essere il martirio di un Vescovo o di un Santo. E la repressione deve essere proporzionale all’ampiezza del fenomeno.

Se, per esempio, si accertasse che in una paese, più della metà della popolazione e delle forze di polizia, siano favorevoli ad un cambiamento di regime, bisogna prima di tutto interrogarsi sul perché di questo fenomeno sociale prima che sul come reprimerlo.

In conclusione, la lotta alla devianza sociale è come il trattamento dei rifiuti: il risparmio delle materie prime ed il loro corretto impiego, la raccolta differenziata ed il riciclo sono processi lunghi e costosi ma che danno risultati molto positivi nel medio e lungo periodo. Una discarica abusiva ti risolve il problema nel brevissimo ma arreca danni permanenti all’ambiente nel medio e lungo periodo.

Il mio auspicio è che il carcere non sia una discarica abusiva di rifiuti (umani).

Gian Burrasca


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