LE RECENSIONI INATTUALI


Adieu Carofiglio.

Recensione impertinente a “Il passato è una terra straniera” (2004).

Indeciso fino all’ultimo se leggere o meno Carofiglio, visto che lo si vede e sente e legge ovunque, spesso intento a pontificare in special modo su se stesso, mi son detto: vabbé dai, anche James Ellroy – un esempio a caso – è uno che ha un’autoconsiderazione portata alle stelle e finanche fastidiosa, ma rimane una delle vette della letteratura mondiale nonché uno dei miei idoli, quindi perché no, diamo una possibilità anche a questo magistrato scrittore: possibilità sprecata.

La storia non sarebbe in sé malvagia e l’intreccio potrebbe essere buono, se la dislocazione e la struttura degli episodi non sembrasse un po’ casuale.

Sicuramente già mi vedo il plot adattato a una di quelle belle fiction italiane della Rai girate tra il Salento e la Spagna, con grossi SUV neri che sfrecciano ai duecento all’ora inseguite da auto piene di sbirri, laddove ovviamente questi ultimi saranno sempre più o meno palesemente sfigati, belle location, qualche bel revolver, una spruzzata di cocaina qui nella bella villa kitsch di qualche parvenu locale, un po’ di fumo di canne invece là nell’appartamento spagnolo della ragazzetta alternativa, qualche alba e qualche tramonto sul Mediterraneo, e soprattutto un bel lieto fine dove il protagonista, in fondo, seppur ammaccato, la spunta da mezzo eroe compreso di riconoscimento postumo, anziché da sfigato figlio di puttana complessato com’è in realtà, cosa per il resto che lui stesso tiene a dirci continuamente dall’inizio alla fine del racconto.

Ecco, dicevo, la storia non sarebbe malvagia, ma la medietà stilistica, la lingua imprecisa e balbuziente, il malcelato sforzo della ricerca di una letterarietà alta che stride con l’utilizzo di una trivialità lessicale, messe assieme rivelano un talento di narratore a mio parere poco interessante.

Ma come si fa, per limitarsi a un esempio, a usare nella stessa pagina parole come “coglione” e “scopare” e “sparare un paio di rutti” e scrivere anche “allentare un bel peto” anziché, chessò, “mollare una scoreggia”!

Meglio poi non addentrarsi troppo in considerazioni più dettagliate e analitiche ad esempio sulle figure femminili: sveglie o sgarrite o alternative (o tutt’e tre le cose assieme) ma “zoccole”: vale a dire quelle con cui “fai sesso” e “usi il cazzo” o fai i “menage a trois”; oppure completamente ignave e coatte e comunque sempre “zoccole” (con cui condividere “cazzi” e “peti”); o al contrario stereotipatamente e inutilmente acqua e sapone, con le quali chiaramente non si scopa  ma “si fa l’amore”, ovviamente in maniera divina e da perfetti amatori; e poi, per finire la galleria, non potevano mancare le vecchie rancorose e puzzolenti (che ovviamente muoiono) e poi tossiche e suicide e mannaggia ce ne sia una positiva e magari ritagliata con maggior profondità psicologica delle altre, ché paiono le sagome di un teatro delle ombre.

E poi l’aspetto a mio avviso più deleterio, o comunque per me più fastidioso: quanto ordinario e malcelato autobiografismo cola da ogni spazio bianco, quale ego trapela da ogni a capo, quale confusione tra la voce narrante e la voce dell’autore in carne e ossa, che per nostra disgrazia conosciamo benissimo grazie alla sua sovraesposizione mediatica, e il tutto senza un briciolo d’ironia.

Forse che l’autore volesse prendersi sulla carta le rivincite di chissà quale mancato rito di passaggio giovanile? O che – sulla pelle di noi lettori – intendesse togliersi sfizi e pruriti e desideri di emulazione alimentati dal suo continuo, stretto e professionale contatto col mondo del crimine?

Non lo so, e a questo punto non mi prenderò la briga di approfondire leggendo gli altri racconti, che chissà, magari saranno straordinari.

No, decisamente uno basta e avanza.

Adieu Carofiglio.

Simón del deserto


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